Perché, se il primo singolo ci ha fregati un po’ tutti – adesso possiamo dircelo –, e il secondo, Daydreaming, ci ha dato una carezza così dolce da farci ricordare quanto struggente possa essere un pezzo lento con voce e pianoforte e con qualche goccia di elettronica che scivola giù da un vetro durante un momento di pioggia fitta, tutto l’album è una rivelazione. Più per gli amanti dei Radiohead, forse, che per i loro meno assidui ascoltatori.
Io, ad oggi, non so bene cosa scrivere ma so bene cosa ho ascoltato, le sensazioni che sono maturate in me e trascriverle non è quasi mai facile. “A Moon Shaped Pool” è un album molto più semplice di “The King of Limbs”. È un album che sente di molte sofferenze, che urla pur bisbigliando, che vuole essere chiaro, anche quando Yorke graffia inaspettatamente la voce per qualche attimo e in qualche acuto. È un album che, dopo i primi due singoli – che nella tracklist si trovano all’inizio e in base alla cronologia d’uscita –, ti spiazza, non ti piace. O meglio, sembra non ti piaccia, o quasi fai resistenza affinché non ti piaccia. È una sensazione che io ho avuto per circa sette/otto minuti.
“A Moon Shaped Pool” è un album molto più acustico di quello che ci si potesse aspettare.
Arrivati alla quinta e sesta traccia – rispettivamente Ful Stop e Glass Eyes –, ti fermi, ti blocchi, dici “Diamine!”. È come se ti cadessero tutti i presupposti negativi – alcuni portati dietro da “The King of Limbs” e dalle produzioni degli Atom For Peace –, come quella patina di insoddisfazione cadesse subito e ti spingesse a tornare indietro e riascoltare i pezzi che separano questi ultimi pezzi citai da Daydreaming. E capisci che tutto è incastonato con una precisione che, questa volta, è quasi geometricamente emozionale, prima che ritmica. Una precisione dettata dai suoni, dai testi che, come sempre, parlano di sentimenti, forti, di occhi, ma anche di argomenti riguardanti l’ambiente, molto cari a Yorke e compagni.
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