Luce e buio. Ragione e istinto. Anima e corpo. Sono i dualismi a rendere interessanti i fenomeni e le persone, alla ricerca di quel tutto che vive di un equilibrio in costante precarietà. E quando l’equilibrio trova difficilmente il suo asse, il conflitto tra le parti diventa evidente producendo talvolta crisi di identità. A proposito di identità, qui parlo di quella musicale, sono due le vesti che ha deciso di indossare Richard Ashcroft nel suo nuovo disco, pubblicato lo scorso 20 maggio. “These people” (parla al plurale proprio perché sa di essersi sdoppiato?) è il quinto album in studio da solista per l’ex leader dei The Verve e arriva dopo dieci anni da quello che era stato un successo, “Keys to the world”.
Le aspettative su questo nuovo lavoro erano alte
Perciò quando uscì il primo singolo estratto “This is how it feels” ricordo che non esitai ad ascoltarlo. Da quel primo ascolto non ne uscii troppo entusiasta ma neanche amareggiata, mi sembrava che la canzone fosse, infatti, abbastanza fedele allo stile del cantautore. Decido, quindi, di far partire il play dell’album e ciò che mi si presentò subito all’orecchio era un apripista fuorviante, tremendamente pop, ma tutto sommato non condannabile: si tratta di “Out of my body”, dove Ashcroft sembra appunto “uscire dal suo corpo” per entrare in quello di un artista votato all’elettronica. Dietro il brano, e un po’ dietro tutta la parte “innovativa” della tracklist, c’è infatti Mirwais che collaborò all’epoca con Madonna nel suo “American Life”.
Il brit-pop fatto di archi e chitarre torna a rassicurare l’ascoltatore in “They don’t own me”, piccolo manifesto d’indipendenza dell’artista.
Segue, poi, il secondo singolo estratto dal titolo “Hold On” che si caratterizza per un testo impegnato (si dice sia stato ispirato dalla Primavera Araba), una melodia radiofonica e incalzante, ma un beat scontato. Rientriamo nella metà “buona”, quella familiare, con “These People” e “Picture of you”, ballad ben riuscita sia per la struttura tutt’altro che banale che per la sua semplicità di concetto. E se da sempre, come insegnano i Blues Brothers, tutti hanno bisogno di qualcuno d’amare, secondo Richard Ashcroft tutti hanno anche bisogno di qualcuno da ferire (forse proprio per amare?): “Everybody needs somebody to hurt” sembra più un pezzo inserito per dare respiro e non si capisce bene cosa voglia trasmettere veramente. Altro momento degno di nota è “Black Lines”, dove l’orecchio più attento può riconoscere una certa somiglianza con un pezzo storico sofferto come “The Drugs Don’t Work” e per questo ci piace, creando un’occasione per farci emozionare ancora. “Ain’t The Future So Bright” è piatto abbastanza da non lasciare il segno, mentre la chiusura del disco viene affidata a “Songs Of Experience” un brano della parte “nuova”, quella che confonde, ma che forse è l’esperimento meno radicale fra tutti i brani borderline.
“These People” contiene un dualismo musicale evidente.
Da una parte torna il Richard Ashcroft cantautore, che non regala niente di esaltante e che rimane ancorato ai suoi comodi schemi brit, e dall’altra fa il suo ingresso il Richard Ashcroft che si sente “libero dal controllo” e che, per questo, decide di abbinare orchestra e sintetizzatori dando vita ad un sound ormai superato. Sei lì e speri in un miracolo, in un’idea geniale, in un brano che faccia il botto. Ma questo botto non arriva, e allora pensi che la visione musicale di matrice verviana è andata a farsi benedire.
Voto: 6
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