Quante volte avete atteso, trepidanti e speranzosi, che la vostra band preferita rilasciasse un album? Ebbene, sarò onesto: dal momento che i miei gusti musicali spaziano dal soul più delicato al metal più sguaiato, questa è più o meno la mia condizione esistenziale. Vita grama, direte voi. Il 26 di febbraio, dunque, è finalmente uscito il secondo album di una delle band che più apprezzo. Si chiama – prendete fiato – “I Like It When You Sleep For You’re So Beautiful Yet So Unaware Of It”, opera di un giovane quartetto indie – ma non troppo – di Manchester che prende il nome di The 1975, un LP di successo alle spalle e tanta, tanta creatività.
Ma procediamo con ordine e cerchiamo di capire se il disco compensi o meno la fatica impiegata a pronunciarne il titolo. Per quanto riguarda, dunque, quest’ultimo, si tratta di una frase che Matthew Healy, frontman della band, disse ad una sua fidanzata. In traduzione, per chi non ne avesse la voglia, risulta: “Mi piace quando dormi, perché sei così bella e al contempo inconsapevole di ciò’ “. Romantico, no? Certamente, perché il disco trova nell’amore il suo tema forte: che sia erotismo o puro sentimento, è presente in ognuna delle tracce. Escludendo il primo brano, di cui parleremo in seguito, già il brano di apertura dell’album si chiama “Love Me”. L’album mette inoltre a nudo i pensieri più arditi di Healy, i suoi problemi, la sua tossicodipendenza, le sue ossessioni, i suoi amori e timori. E’ la vita di un gruppo di ragazzi trovatisi, nel giro di poche settimane, a spiccare sulla scena indie internazionale. Concretamente, troviamo nell’ordine: un ragazzo stufo degli amori opportunisti e condizionati dalla fama, in astinenza da stupefacenti, perso nell’ateismo, alle prese con una brutta allucinazione da droga, in dubbio sul suo orientamento. Insomma, non si può dire che l’album sia vano o futile.
Né futile è, d’altronde, la sua sonorità. Perché la domanda che sorge spontanea è: “Ma questo album, quindi, come suona?” Questo album suona, quindi, vissuto. Suona come un percorso di realizzazione di quattro ragazzi partiti rock e plasmati, pian piano, da un percorso che li ha avvicinati a sonorità più soft, più limate, decisamente più mature. Per riprendere, non è vano e non è futile: a comporre un testo semplice sulla propria amata sono bravi tutti – o quasi -, e chi suona si accorgerà che inserirlo in un giro di accordi non è difficile. Ma, si capisce, redigere una confessione spirituale, opera già ardua in sé, implica che la base sia ben più complessa di un semplice giro di accordi.
Il primo strumento del disco è un sintetizzatore.
E’ questa una scelta estremamente saggia: avete presente i poemi omerici, che hanno come prima parola il tema di fondo? Ecco, è esattamente così. Il disco comincia con un crescendo di sintetizzatore e archi che culmina in un coro di voci femminili sovrastato da Matt Healy. Ed è proprio nel primo brano uno dei lampi di genio del giovane cantante: il titolo coincide con il nome della band, ma anche, attenzione, con quello del primo album e, ancora più attenzione, del primo pezzo del primo album, così come coincidono gli accordi e il testo. I brani, però, presentano alcune differenze sostanziali. Molto chiaro è il messaggio che, dunque, la band vuole far passare: siamo sempre noi, è sicuro, e abbiamo ben presente quello che abbiamo già fatto, ma badate a quello che stiamo per fare, perché siamo cambiati.
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