Infatti, nel disco d’esordio, nel primo brano vi sono archi lineari e ripetitivi, ossessivi, che sfociano poi nel tappeto di tastiera della seconda traccia, “The City”, pezzo aggressivo e indie, ma molto vicino al rock. Nel disco che prendiamo in esame, invece, abbiamo una netta evoluzione del suono, con giochi stereo, poi una cesura improvvisa, dunque il corpo del brano, con il testo e un continuato e fine lavoro di volumi, che culmina in un dilagare del synth, e piomba nel vuoto.
Poi, che funky sia.
Comincia, con due accordi di chitarra imbottita di chorus e compressore (c’è qualcosa di più funk?), “Love Me”, la nuova anima dei The 1975, che tanto sanno di The 1985. Anche qui, il sottinteso è palese: se prima eravamo indie, adesso siamo Funk Pop. Adesso vi facciamo ballare. Ed è così, perché il pezzo presenta una linea di basso incalzante ed una ritmica di batteria sincopata che risulteranno irresistibili. Ascoltatelo, ed avrete un sentore di chi sono i modelli di questi quattro giovani: il pezzo, tra cori, interventi di synth (ah, questo synth!), scale di chitarra distorta quasi fino a gracchiare, vi ricorderà immediatamente i Duran Duran dei tempi migliori. Il pezzo successivo, “UGH!”, si presenta ancora una volta sorprendente. Rimangono le pause in sincope, la chitarra funkeggiante, ma l’atmosfera è decisamente più pop. Ritornello facile e aria innocente, Healy ha appena nascosto in un tormentone stile ’80 uno sfogo, un’esasperazione dovuta alla dipendenza da cocaina. Funky e smosso è anche “She’s American”, che tra tutti è il pezzo che più si ricongiunge alla prima versione del quartetto di Manchester, con chitarre molto pulite e coinvolgenti e batteria – quasi – lineare.
Oltre a questi, mi preme di sottolinearne altri due: “If I Believe You” è il primo. Si tratta di una supplica a Dio, affinché si palesi e si renda disponibile ad aiutare un povero ragazzo smarrito. Qui rimaniamo di nuovo interdetti. La sonorità è inconfondibilmente R’n’B, nello stille della Motown più nera. Tappeto di synth e organo, frasi ricorrenti di tastiera, giro blues. In ultimo, “The Ballad Of Me And My Brain”. E’ questa una terribile allucinazione in cui il malcapitato immagina di perdere il proprio cervello, un po’ come Il Naso, di Gogol’. Con quale partecipazione Healy interpreta questo brano! La sua voce è piegata, straziata dal tormento, dal dolore, che sembra, e probabilmente è, fisico oltre che psicologico. Mentre il chitarrista accende per la prima volta il distorsore, e accompagna la voce con accordi pieni e arpeggiati (seppur a volume basso), e la batteria si concentra sui tom, come a martellare la psiche di chi ascolta, il carismatico frontman quasi urla in preda alla disperazione, in un insieme che non può non ricordare Peter Gabriel (ch’è anche uno dei principali maestri ed estimatori del gruppo).
Insomma, abbiamo davanti un quartetto giovanissimo, che a molti sembrava immaturo e vanesio, e destinato ad un declino inevitabile e umiliante. Invece, questi quattro ragazzi, totalmente diversi, si presentano alla critica con un devastante mix del miglior pop anni ’80, ma nel 2016. Mossa coraggiosa, non c’è che dire: quanti si arrischierebbero, nell’epoca del rap, del pop dilavato e fine a se stesso, a lanciare prepotentemente nel mezzo della scena un album fuori stile, fuori epoca, provocatorio, con una base di pubblico abituata ad altro e così ampia da garantire sold out ad ogni show?
I The 1975 lo hanno fatto, sprezzanti, e per ora almeno un fan lo hanno di sicuro.
(Francesco Reni)
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